Livia, il nome è necessariamente di fantasia, nacque e visse Roma nel primo secolo DC. La sua famiglia, presumibilmente benestante, si spostò a vivere a Cosa (oggi Ansedonia), allora colonia imperiale in territorio etrusco. Qui Livia morì, intorno ai 17 anni. La causa: celiachia. Livia rappresenta la “paziente zero” in territorio mondiale. Vediamo perchè questo caso, ancora oggi, è importante e come può essere utile alla ricerca e alla cura di questa patologia.
Nel terzo millennio, dove scienza e medicina vedono un eccezionale sviluppo grazie alle tecnologie più avanzate, uno scheletro risalente al I secolo DC può ancora “insegnare” qualcosa?
La risposta, solo apparentemente sorprendente è: SI‘. E vediamo perché e come, grazie a un colloquio “a tutto campo con lo scienziato, il medico, che questo scheletro ha studiato a fondo, il Prof. Giovanni Gasbarrini, Professore Emerito di Medicina Interna presso l’Università Cattolica, in Roma. Riprendiamo dal sito di CEMAD l’intervista completa.
Domanda: “Professore, la pubblicazione del suo libro “L’Inumata” (LINK) ha acceso nuova attenzione e interesse su questa indagine, che possiamo dire di “medicina investigativa”, che lei ha effettuato. Può raccontarcela?”
Prof. G. Gasbarrini: “Sono partito da una serie di “indizi” molto evidenti. Ma dobbiamo prima sottolineare che Livia per la tipica sepoltura (a “cappuccina)), con tetto di tegole), il ricco corredo funerario che l’accompagnava (gioielli in oro e bronzo alle mani e alle orecchie) certamente apparteneva a una famiglia facoltosa. Eppure era morta di malnutrizione”.
D: “E qui il ricercatore-detective ha trovato un caso affascinante da studiare e risolvere…”
GG “Partendo dagli indizi. Il primo era le orbite oculari: erano caratterizzato da cribra orbitaria, e cioè quasi perforate da fessure per l’ osteoporosi. Ma come mai una ragazza di (circa) 17 anni, presentava osteoporosi? E poi: i denti evidenziavano una particolare disposizione della dentina, lasciando esposta la polpa, sintomo che già negli anni ’70 avevamo identificato come prognostica di celiachia…Il terzo indizio era una sub-lussazione congenita dell’anca: e queste malformazioni i possono essere presenti nei celiaci.”
D: “Un problema con il glutine quindi…
GG “Nella prima decade del 2000 stavamo appunto lavorando con l’Università della Tuscia sulla celiachia e decisi di approfondire lo studio sul tipo e sulla quantità di glutine dannoso per l’intestino negli intolleranti e che Livia presumibilmente assumeva con la dieta. I cereali detenevano, nella cultura alimentare romana dell’epoca, un posto già molto importante nella dieta di ogni classe sociale, anche delle più agiate. Nel suo caso, con l’obiettivo di rimediare alla sua gracilità e al sottopeso, i medici e la famiglia avranno consigliato e instaurato una dieta ricca di farro, orzo e frumento, quindi ricchissima di glutine e per lei fatale.”
D: “Questa indagine di “medicina legale”, differita di 2000 anni dall’epoca dei fatti e che lei ha compiuto e narrato, fa sorgere una domanda riferita a oggi. La celiachia è una patologia ancora molto, troppo, sottostimata (i dati dell’Associazione Italiana Celiachia ne stimano la presenza in un soggetto ogni 100/150). I celiaci potrebbero essere quindi 600mila, ma ad oggi sono diagnosticati meno della metà dei casi totali). Rischiamo di incontrare altri casi simili a quelli di Livia?”
GG “Il primo malato di celiachia che ho diagnosticato e curato risale agli anni 60, e quindi agli inizi della mia carriera. Oggi sicuramente si sono fatti moltissimi passi avanti, anche se parliamo ancora di una patologia nettamente sotto-diagnosticata. L’invito è quindi quello di non sottovalutare i sintomi e, nel dubbio, effettuare i test – rapidi e non invasivi – di cui disponiamo oggi”.
D “Ma…”
GG “Oggi, in più, si sta affacciando una nuova problematica, rappresentata da chi soffre di non-celiac gluten sensitivity (NCGS) ovvero persone sensibili al glutine ma non celiaci, ma che credono di essere tali.”
D: “Un motivo per ricorrere alle diete prive di glutine di cui oggi si parla molto, soprattutto in Italia?”
GG “Il glutine è un nutriente importante, un complesso ricco di proteine cui non bisogna rinunciare se non in caso di necessità. Solo chi è celiaco o ha una forma di intolleranza reale e accertata deve sostituire i cereali che lo contengono con altri, come il sorgo ad esempio, sul quale abbiamo pubblicato delle esperienze importanti, che ne sono privi.”
D: “Torniamo a Livia: per confermare la diagnosi, inizialmente intuitiva, sono state utilizzate delle tecnologie avanzate. Quali?”
GG “Di celiachia si parla addirittura al tempo degli Egizi, fin dal 7000 AC. Questo potrebbe essere il primo caso di celiachia accertato, dopo quello descritto dal medico greco Areteo di Cappadocia nel 250 AC che ipotizzò solo che sintomi addominali (koiliakos in greco) in alcuni bambini che vivevano in comunità rurali fossero attribuibili all’alimentazione Ma mai era stata ricercata la tipologia genetica, qui sta l’elemento di assoluta novità e di certezza.
Nel caso di Livia, grazie all’antropologa EIsa Pacciani, della Soprintendenza toscana, la sepoltura fu aperta per prelevare un campione di osso e poi di un dente. Il reperto fu poi sottoposto ad analisi paleogenetica da parte della dottoressa Olga Rickard, con lo scopo di ricercare gli aplotipi (una combinazione di varianti legate al cromosoma NDR) di predisposizione genetica per la celiachia (identificate con la sigla HLA DQ2/DQ8)”
D “E questo tipo di analisi, oltre a sciogliere ogni dubbio residuo, cosa rivela a noi, uomini del terzo millennio?”
GG “Che la zona dei reperti era occupata da una popolazione, residente oppure occasionalmente abitante o immigrata, caratterizzata proprio da un HLA tipico di chi soffre della malattia celiaca, e che la manifestazione clinica della malattia poteva farsi evidente quando il glutine usato per l’alimentazione era assunto in quantitativo maggiore.
D: “Lei ritiene quindi sia opportuno ricercare maggiormente la presenza di una malattia celiaca? Con quali mezzi e con quali metodi?”
GG “Già alcuni anni fa avevamo proposto di fare la il dosaggio degli anticorpi rivelanti una malattia celiaca (anti-gliadina nella prima infanzia, ed anti-endomisio dopo l’infanzia e nell’età adulta) a tutta la popolazione.
Questa ricerca diviene indispensabile quando ci siano sintomi di malattia celiaca (quali anemia dimorfica, dimagrimento, turbe dell’alvo e della digestione, astenia, dermiti, etc), ma anche quando sono presenti sintomi più rari, ma che oggi, anche la nostra Scuola, ha dimostrato essere indicativi o predittivi.
La ricerca dell’HLA è importante, ma indica la suscettibilità e può essere utile per la valutazione della familiarità, ma la diagnosi va fatta solo sulla base di endoscopia-biopsie, che devono essere multiple ed orientate anche sul piano visivo, come già dimostrato anche dalla nostra Scuola.
Fra l’altro, in una certa percentuale di casi, anche la non valutazione del reperto biologico fatta in maniera corretta, ad esempio nelle forme in cui vi è solo un aumento dell’infiltrato linfocitario, può portare ad una diagnosi di celiachia anche quando, in realtà, non esiste.
Queste ricerche non solo sono utili per la diagnosi di malattia (ricordo che la non diagnosi può portare, negli anni, ad una maggiore incidenza di patologie maligne dell’intestino), ma anche per escluderla negli intolleranti non celiaci. In questi casi la nostra opinione è quella che la prima valutazione da fare e la caratterizzazione del microbiota Intestinale, valutato nella sua tipologia e nella sua attività”.
Per saperne di più
https://www.epicentro.iss.it/celiachia/
http://www.cemadgemelli.it/2019/08/11/sensibilita-al-glutine-perche-non-va-confusa-con-la-celiachia/